Tempo per la vestizione della divisa, retribuzione aggiuntiva

“Va computato nell’orario di lavoro, con conseguente diritto alla retribuzione aggiuntiva, il tempo impiegato dal dipendente per la vestizione e la svestizione della divisa da lavoro ove tale operazione sia eterodiretta dal datore di lavoro (fattispecie relativa all’attività di assistenza presso una residenza per anziani, la quale, per sua natura, richiede che la divisa sia necessariamente indossata e tolta, per ragioni di igiene, presso il luogo dì lavoro e non altrove)”. Cassazione civile, sez. lav., 26 gennaio 2016,  n. 1352

 

 

La vicenda

 

 

I dipendenti di una cooperativa sociale che prestano assistenza ad anziani non autosufficienti presso strutture private, convenivano in giudizio il  datore di lavoro per ottenere il pagamento a titolo di lavoro straordinario del tempo necessario per indossare e svestire la divisa loro imposta per lo svolgimento della prestazione, che già dovevano avere indosso nel momento in cui timbravano il cartellino.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda e la Corte d’appello confermava il rigetto. Il Giudice di seconde cure argomentava sul punto che, nulla disponendo sulla specifica questione il contratto collettivo, al fine di ottenere la ricomprensione del tempo occorrente per indossare e dismettere la divisa aziendale nell’orario di lavoro i ricorrenti avrebbero dovuto dimostrare che il datore di lavoro aveva imposto l’effettuazione di tali operazioni sul luogo di lavoro, circostanza che tuttavia non era stata allegata, nè provata.

Ricorrevano in Cassazione due lavoratici cui resisteva con controricorso la cooperativa sociale.

 

 

Argomentazioni

 

 

La pronuncia della Suprema Corte offre una ricostruzione puntuale della problematica che spesso è stata oggetto di analisi da parte del Giudice del Lavoro, individuando le linee guida per orientarsi in tema di orario di lavoro ed indumenti necessari per svolgere la prestazione.

Sulla problematica, infatti, La Corte ribadisce che la vestizione degli indumenti necessari per lo svolgimento della prestazione di lavoro (e, più in generale, della divisa aziendale) costituisce un’operazione preparatoria della prestazione di lavoro e ad essa strumentale. La consolidata giurisprudenza della Sezione lavoro della Corte di Cassazione ritiene che al fine di valutare se il tempo occorrente per tale operazione debba essere retribuito o meno, occorre far riferimento alla disciplina contrattuale specifica. In particolare, ove sia data facoltà al lavoratore di scegliere il tempo e il luogo ove indossare la divisa o gli indumenti (anche eventualmente presso la propria abitazione, prima di recarsi al lavoro), la relativa operazione fa parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento dell’attività lavorativa, e come tale il tempo necessario per il suo compimento non dev’essere retribuito.

Se, invece, le modalità esecutive di detta operazione sono imposte dal datore di lavoro, che ne disciplina il tempo ed il luogo di esecuzione, l’operazione stessa rientra nel lavoro effettivo e di conseguenza il tempo ad essa necessario dev’essere retribuito

La soluzione adottata dalla Corte di Cassazione è coerente con la previsione contenuta nel D.Lgs. 8 aprile 2003, n. 66, art. 1, comma 2 lett. a), secondo la quale per orario di lavoro si intende “qualsiasi periodo in cui il lavoratore sia al lavoro, a disposizione del datore di lavoro e nell’esercizio della sua attività o delle sue funzioni”.

I criteri sopra enucleati riecheggiano nella stessa giurisprudenza comunitaria. Il fattore determinante che qualifica l’orario di lavoro è stato in genere ritenuto dalla Corte UE il fatto che il lavoratore sia costretto ad essere fisicamente presente nel luogo stabilito dal datore di lavoro e a tenersi a disposizione del medesimo per poter immediatamente fornire le opportune prestazioni in caso di bisogno (v., in tal senso, sentenza Dellas e a., C-14/04, punto 48, nonchè ordinanze Vorel, C-437/05, punto 28, e Grigore, C-258/10, punto 63).

Pertanto, affinchè un lavoratore possa essere considerato a disposizione del proprio datore di lavoro, egli deve essere posto in una situazione nella quale è obbligato giuridicamente ad eseguire le istruzioni del proprio datore di lavoro e ad esercitare la propria attività per il medesimo.

La soluzione adottata dalla Corte UE conferma quindi l’impostazione assunta la Corte di Cassazione anche in relazione alla fattispecie in esame, secondo la quale, riassuntivamente, occorre distinguere nel rapporto di lavoro tra la fase finale, che è direttamente assoggettata al potere di conformazione del datore di lavoro, che ne disciplina il tempo, il luogo e il modo e che rientra nell’orario di lavoro, ed una fase preparatoria, relativa a prestazioni od attività accessorie e strumentali, da eseguire nell’ambito della disciplina d’impresa ed autonomamente esigibili dal datore di lavoro, ma rimesse alla determinazione del prestatore nell’ambito della libertà di disporre del proprio tempo, che non costituisce orario di lavoro. L’eterodeterminazione del tempo e del luogo ove indossare la divisa o gli indumenti necessari per la prestazione lavorativa, che fa rientrare il tempo necessario per la vestizione e svestizione nell’ambito del tempo di lavoro, può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare o dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione. Possono quindi determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro ragioni d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere ed anche la qualità degli indumenti, quando essi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili nell’abbigliamento secondo un criterio di normalità sociale, sicchè non si possa ragionevolmente ipotizzare che siano indossati al di fuori del luogo di lavoro. Alla luce della normativa vigente, dunque, il discrimen tra ciò che è orario di lavoro e ciò che non lo è consiste nell’eterodirezione, cioè nell’assoggettamento del lavoratore all’esercizio del potere organizzativo, direttivo e di controllo da parte del datore di lavoro, conformemente a quanto già individuato dal consolidato orientamento giurisprudenziale e dottrinale in materia.

Nel caso di specie, la Corte territoriale, tenuto conto del mancato intervento sulla specifica questione della contrattazione collettiva applicabile in azienda, aveva concluso che potesse escludersi un obbligo per i lavoratori di indossare la divisa in azienda, in considerazione del fatto che i lavoratori non svolgevano mansioni infermieristiche nè lavoravano in strutture ospedaliere, “sicchè è sufficiente che si presentino con una divisa pulita“, anche se indossata prima di muoversi da casa. Tale decisum è stato criticato dalla Corte di Cassazione che rilevava come i Giudici della fase di merito non avessero valutato le risultanze di causa onde desumerne quale fosse il grado di igiene richiesto per l’espletamento della prestazione (limitandosi a parlare genericamente di “pulizia” della divisa) e se esso potesse essere realmente garantito dal tragitto che i lavoratori dovevano compiere prima di entrare nel luogo di lavoro; inoltre, non analizzavano le caratteristiche della divisa imposta per l’espletamento della prestazione in tutte le sue componenti (consistente nella fattispecie in casacca a maniche corte, pantaloni, zoccoli, cuffia per chi somministra gli alimenti) per esaminare se essa potesse essere indossata dai lavoratori in luogo diverso da quello di lavoro, secondo un criterio di “normalità sociale” dell’abbigliamento.

Per tali motivi, la Suprema Corte accoglieva i primi tre motivi di ricorso delle lavoratrici e cassava la sentenza della Corte d’appello di Milano.

 

Danno da demansionamento, onere della prova

“La responsabilità del datore di lavoro di cui all’art. 2087 c.c. è di natura contrattuale. Ne consegue che, ai fini del relativo accertamento, incombe sul lavoratore che lamenti di aver subito, a causa di demansionamento o dequalificazione, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno, come pure la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’uno e l’altro elemento, mentre grava sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le predette circostanze, l’onere di provare di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, ovvero di aver adottato tutte le cautele necessarie per impedire il verificarsi del danno medesimo”.

Cassazione, Sez. Lav. 6 maggio 2019 n. 11777

 

 

La vicenda

 

 

Il Tribunale di Ascoli Piceno rigettava la domanda proposta da un dipendente che lamentava la dequalificazione subita da parte del proprio datore di lavoro formulando una domanda risarcitoria per il danno professionale e non patrimoniale subito a causa della condotta datoriale. Il Giudice del primo grado del giudizio rigettava le domande del lavoratore in quanto carenti di allegazione e prova dell’avvenuto danno subito. Il dipendente impugnava la sentenza avanti la Corte d’Appello di Ancona che confermava la pronuncia di primo grado. Il Lavoratore, infine, ricorreva in Cassazione lamentando la violazione degli articoli 2087, 2103 e 1218 c.c.

 

Argomentazioni

 

La pronuncia in esame è interessante in quanto la Corte di Cassazione, nell’esaminare li motivi di ricorso, offre una puntuale disamina sui principi che regolano l’onere della prova che grava sul lavoratore che agisca in giudizio per ottenere il risarcimento del danno da demansionamento e violazione degli obblighi discendenti in capo al datore di lavoro dall’articolo 2087 e 2103 c.c…

Afferma, infatti, il Collegio che in materia di demansionamento, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico e, comunque, non patrimoniale, non ricorre automaticamente in tutti i casi in cui venga accertato l’inadempimento datoriale e quindi nel semplice caso in cui si sia verificato l’effettiva dequalificazione del lavoratore. Per poter arrivare ad una pronuncia di risarcimento del danno,  non si può prescindere da una specifica allegazione sulla tipologia e sulle caratteristiche del pregiudizio subito e sulla necessità di specifica prova dell’esistenza del danno stesso e del nesso di causalità che lo lega all’inadempimento datoriale.

Secondo una classificazione oramai consolidata nel nostro Ordinamento, anche in caso di demansionamento, suscettibile di essere risarcito non è il semplice inadempimento degli obblighi datoriali discendenti dall’articolo 2087 c.c. o dall’articolo 2103 c.c. o dal contratto di lavoro in genere, bensì le conseguenze pregiudizievoli per il lavoratore, patrimoniali e non, derivanti da tale inadempimento.

Occorre, infatti, distinguere tra violazione degli obblighi contrattuali e produzione del danno derivante dall’inadempimento di tali obblighi.  Quest’ultimo non necessariamente scaturisce sempre da un inadempimento, essendo, infatti, necessario individuare (ed allegare in giudizio) la specifica conseguenza pregiudizievole derivante dall’inadempimento, intesa come lesione di un bene giuridico del lavoratore, affinché si possa configurare un danno e procedere di conseguenza alla sua liquidazione.

Incombe sul lavoratore, prosegue la Corte, che lamenti di aver subito, a causa del demansionamento, un danno alla salute, l’onere di provare l’esistenza di tale danno nonché il nesso tra la condotta datoriale ed il pregiudizio subito. Quando il lavoratore abbia provato quelle circostanze, grava sul datore di lavoro l’onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno.

Nella specie la Corte d’Appello di Ancona, con valutazione di merito non censurabile in sede di legittimità perché assistita da motivazione sufficiente e non contraddittoria, riteneva che non fosse stata raggiunta la prova del lamentato danno e del nesso causale.

 

Licenziamento orale, onere della prova

“Qualora il lavoratore subordinato impugni un licenziamento sostenendo che sia stato intimato oralmente, ha l’onere di provare, quale elemento costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, in quanto la mera cessazione nell’esecuzione della prestazione non è circostanza di per sé idonea a fornire la prova. Ove viceversa il datore di lavoro, dal canto suo, eccepisca che il rapporto si sia risolto per dimissioni del lavoratore, il Giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa e nel caso in cui perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola di cui all’articolo 2697 c.c. comma 1, rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda” Cassazione, Sez. Lav. 8 febbraio 2019 n. 3822

 

 

La vicenda

 

 

La Corte d’appello di Catanzaro rigettava il reclamo proposto, ai sensi della legge92 del 2012, dal datore di lavoro, confermando la pronuncia di primo grado che aveva accolto l’impugnativa proposta dal lavoratore avverso il licenziamento asseritamente intimato in forma orale.

La Corte riteneva che la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti era pacifica e non contestata, pertanto il dipendente aveva adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto. Invece, secondo la Corte territoriale non erano state provate le dimissioni del lavoratore eccepite dal datore di lavoro, sicchè il reclamo dello stesso avanzato andava respinto.

Ricorreva in Cassazione la Società datrice di lavoro denunciando la “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale posto a suo carico l’onere di provare le dimissioni del lavoratore, nonostante non vi fosse prova certa dell’avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento e dell’avvenuta estromissione del lavoratore dal proprio posto.

La Suprema Corte accoglieva la doglianza del ricorrente e cassava la sentenza impugnata al termine di una articolata ricostruzione sistematica della disciplina del licenziamento orale.

 

Argomentazioni

 

Nel suo percorso motivo la Cassazione, in prima battuta, rilevava la disarmonia fatta registrare in sede di legittimità in tema di riparto dell’onere probatorio in caso di licenziamento intimato in forma orale. Infatti, secondo un primo e più risalente orientamento, il fatto costitutivo del diritto del dipendente ad essere riassunto, consisterebbe in un fatto – il licenziamento appunto – attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, di modo che la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro, sarebbe solo quella della semplice estromissione dal rapporto, spettando invece al datore di lavoro, provare in via di eccezione, le intervenute dimissioni del lavoratore.

Proprio con riferimento a questo orientamento, secondo cui è sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo,  la giurisprudenza di legittimità precisava che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia “subito” il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro”.

 

Secondo un più recente orientamento, invece, la mera cessazione definitiva dell’attività lavorativa non sarebbe di per sé idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di una circostanza avente un significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. La Suprema Corte, dopo aver affermato che tale cessazione non equivale ad “estromissione”, si sofferma proprio sulla valenza giuridica di detto termine, che considera sinonimo di “licenziamento”, e quindi allontanamento dall’attività lavorativa per volontà del datore di lavoro. Pertanto, il lavoratore che sostiene di essere stato licenziato (oralmente) deve provare non solo la cessazione dell’attività lavorativa ma la sua estromissione dal rapporto di lavoro, intesa, secondo quanto appena detto, come risoluzione per volontà del datore di lavoro.

Il datore, convenuto in giudizio, che sostenga, invece, che il rapporto si sia estinto per le dimissioni del dipendente, sarà chiamato a darne rigorosa prova, imponendo al Giudice un’accurata indagine nella ricostruzione dei fatti al fine di poter formare il proprio convincimento sulla qualificazione giuridica della fattispecie, allo scopo di inquadrarla, quindi, nell’alveo del licenziamento oppure in quello delle dimissioni.

Da ultimo, la Suprema Corte chiarisce che nel caso in cui perduri una situazione di incertezza probatoria non superabile, opererà la regola dell’art. 2697 c.c., in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta.

Infortunio sul lavoro, condotta abnorme del lavoratore

“In caso di infortunio sul lavoro la condotta del lavoratore può comportare esonero totale di responsabilità per l’imprenditore solo quando presenti i caratteri di abnormità, inopinabilità ed esorbitanza, così da porsi come causa esclusiva dell’evento”. Cassazione, Sez. Lav. 13 febbraio 2019 n. 4225

 

Con la pronuncia in esame la Corte di Cassazione respingeva il ricorso presentato da un lavoratore che, infortunatosi sul luogo di lavoro, aveva agito in giudizio nei confronti del proprio datore di lavoro chiedendo il risarcimento dei danni ai sensi dell’articolo 2087 c.c.

Il dipendente si era infortunato allorquando, per recuperare un penna che gli era scivolata dalla mano, si era calato in una buca adibita alla raccolta dei materiali di risulta proprio quando una gru, in movimento, causava uno spostamento di detriti che colpivano il lavoratore. Il dipendente agiva in giudizio lamentandosi del fatto che la buca non era stata sigillata o, comunque, segnalata e denunciando, altresì, una responsabilità indiretta del datore di lavoro, poichè gli altri dipendenti non si erano avveduti della presenza del ricorrente all’interno della buca destinata alla raccolta del materiale di risulta e non interrompevano le operazioni di movimentazione del materiale. La Corte di Cassazione, esaminando il materiale probatorio raccolto nei precedenti gradi di giudizio, confermava la valutazione operata dai Giudici di merito che ritenevano il comportamento del lavoratore, consistito nel calarsi in una buca destinata alla raccolta dei materiali di scarto senza avvisare preventivamente i colleghi in servizio ed il gruista, del tutto abnorme. La Corte riteneva, altresì, di escludere una responsabilità indiretta del datore di lavoro che si sarebbe potuta configurare solo ove fosse stato ravvisabile un comportamento colposo del gruista non ipotizzabile nel caso di specie, essendo la condotta dell’infortunato assolutamente imprevedibile.

La pronuncia in esame si colloca in continuità con il consolidato orientamento della Corte di Cassazione in tema di infortuni sul lavoro, poiché afferma che la condotta del lavoratore può comportare l’esclusione totale della responsabilità datoriale solo quando presenti i caratteri dell’abnormità, così da porsi come causa esclusiva dell’evento. Nel caso di specie, la Corte ha ritenuto che il lavoratore avesse posto in essere una condotta esorbitante il proprio lavoro integrando una ipotesi di c.d. “rischio elettivo”, concetto quest’ultimo che, in giurisprudenza, definisce una esimente del datore di lavoro da qualsiasi responsabilità.

Tale locuzione, di elaborazione giurisprudenziale, definisce una ipotesi in cui la condotta del lavoratore, in conseguenza della quale si è verificato un infortunio sul lavoro, sia volontaria, contraria al buon senso, palesemente abnorme e svincolata da forza maggiore o da qualsiasi finalità lavorativa.

Attraverso l’esame di numerosi fattispecie, la Corte di Cassazione ha tipizzato alcuni degli elementi che consentono di individuare un evento conseguente ad un rischio elettivo.

In via generale, e con la necessaria prudenza che accompagna ogni generalizzazione, si ritiene escluso il rischio elettivo quando l’evento:

– si sia verificato per forza maggiore,

– pur anormale, sia stato posto in essere nell’esercizio dell’attività lavorativa e per un fine legato alla produzione.

Viceversa, vengono usualmente riconosciuti come indicatori di “elettività”, quindi di esclusione della responsabilità datoriale, i comportamenti:

– assolutamente inusuali rispetto il fine lavorativo o aziendale,

– realizzati per mero esibizionismo o legati a scelte individuali voluttuarie del lavoratore.

Nella sostanza, l’azione, per poter integrare una ipotesi di rischio elettivo, deve interrompere il collegamento con il fine lavorativo o aziendale ed essere realizzata per raggiungere un fine personale o comunque non prevedibile nel normale ciclo produttivo dell’imprenditore.