Licenziamento orale, onere della prova

Condividi questo articolo

“Qualora il lavoratore subordinato impugni un licenziamento sostenendo che sia stato intimato oralmente, ha l’onere di provare, quale elemento costitutivo della domanda, che la risoluzione del rapporto è ascrivibile alla volontà del datore di lavoro, in quanto la mera cessazione nell’esecuzione della prestazione non è circostanza di per sé idonea a fornire la prova. Ove viceversa il datore di lavoro, dal canto suo, eccepisca che il rapporto si sia risolto per dimissioni del lavoratore, il Giudice sarà chiamato a ricostruire i fatti con indagine rigorosa e nel caso in cui perduri l’incertezza probatoria farà applicazione della regola di cui all’articolo 2697 c.c. comma 1, rigettando la domanda del lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda” Cassazione, Sez. Lav. 8 febbraio 2019 n. 3822

 

 

La vicenda

 

 

La Corte d’appello di Catanzaro rigettava il reclamo proposto, ai sensi della legge92 del 2012, dal datore di lavoro, confermando la pronuncia di primo grado che aveva accolto l’impugnativa proposta dal lavoratore avverso il licenziamento asseritamente intimato in forma orale.

La Corte riteneva che la cessazione del rapporto di lavoro tra le parti era pacifica e non contestata, pertanto il dipendente aveva adempiuto al proprio onere probatorio relativo alla sua estromissione dal rapporto. Invece, secondo la Corte territoriale non erano state provate le dimissioni del lavoratore eccepite dal datore di lavoro, sicchè il reclamo dello stesso avanzato andava respinto.

Ricorreva in Cassazione la Società datrice di lavoro denunciando la “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2697 c.c. per avere la Corte territoriale posto a suo carico l’onere di provare le dimissioni del lavoratore, nonostante non vi fosse prova certa dell’avvenuta intimazione in forma orale del licenziamento e dell’avvenuta estromissione del lavoratore dal proprio posto.

La Suprema Corte accoglieva la doglianza del ricorrente e cassava la sentenza impugnata al termine di una articolata ricostruzione sistematica della disciplina del licenziamento orale.

 

Argomentazioni

 

Nel suo percorso motivo la Cassazione, in prima battuta, rilevava la disarmonia fatta registrare in sede di legittimità in tema di riparto dell’onere probatorio in caso di licenziamento intimato in forma orale. Infatti, secondo un primo e più risalente orientamento, il fatto costitutivo del diritto del dipendente ad essere riassunto, consisterebbe in un fatto – il licenziamento appunto – attribuibile alla sola iniziativa del datore di lavoro, di modo che la prova gravante sul lavoratore che domandi la reintegrazione nel posto di lavoro, sarebbe solo quella della semplice estromissione dal rapporto, spettando invece al datore di lavoro, provare in via di eccezione, le intervenute dimissioni del lavoratore.

Proprio con riferimento a questo orientamento, secondo cui è sufficiente per il lavoratore che impugna il licenziamento orale la prova della “cessazione” del rapporto lavorativo,  la giurisprudenza di legittimità precisava che “la prova gravante sul lavoratore – che chieda giudizialmente la declaratoria di illegittimità dell’estinzione del rapporto – riguarda esclusivamente la cessazione del rapporto lavorativo cioè la estromissione del lavoratore dal luogo di lavoro”, atteso che il licenziamento “costituisce un atto unilaterale di recesso con cui una parte dichiara all’altra la sua volontà di estinguere il rapporto e che, quindi, non può che essere comprovato da chi abbia manifestato tale volontà di recedere, non potendo la parte (la quale abbia “subito” il recesso) provare una circostanza attinente alla sfera volitiva del recedente”, per cui “deve confermarsi che l’onere della prova del licenziamento grava sul datore di lavoro”.

 

Secondo un più recente orientamento, invece, la mera cessazione definitiva dell’attività lavorativa non sarebbe di per sé idonea a fornire la prova del licenziamento, trattandosi di una circostanza avente un significato polivalente, in quanto può costituire l’effetto sia di un licenziamento, sia di dimissioni, sia di una risoluzione consensuale. La Suprema Corte, dopo aver affermato che tale cessazione non equivale ad “estromissione”, si sofferma proprio sulla valenza giuridica di detto termine, che considera sinonimo di “licenziamento”, e quindi allontanamento dall’attività lavorativa per volontà del datore di lavoro. Pertanto, il lavoratore che sostiene di essere stato licenziato (oralmente) deve provare non solo la cessazione dell’attività lavorativa ma la sua estromissione dal rapporto di lavoro, intesa, secondo quanto appena detto, come risoluzione per volontà del datore di lavoro.

Il datore, convenuto in giudizio, che sostenga, invece, che il rapporto si sia estinto per le dimissioni del dipendente, sarà chiamato a darne rigorosa prova, imponendo al Giudice un’accurata indagine nella ricostruzione dei fatti al fine di poter formare il proprio convincimento sulla qualificazione giuridica della fattispecie, allo scopo di inquadrarla, quindi, nell’alveo del licenziamento oppure in quello delle dimissioni.

Da ultimo, la Suprema Corte chiarisce che nel caso in cui perduri una situazione di incertezza probatoria non superabile, opererà la regola dell’art. 2697 c.c., in base alla quale il lavoratore che non ha provato il fatto costitutivo della sua domanda la vedrà respinta.


Contenuti scaricabili
Vuoi chiedere ulteriori informazioni?